Missione Burkina: reportage da Alga, la miniera d’oro della sofferenza

Il mio primo viaggio in Burkina Faso si conclude con la visita ad un luogo infernale. Ero già stato sconvolto dal Lebbrosario di fratel Vincenzo e dai malati, bambini soprattutto, ma quello che ho visto alla miniera d’oro di Alga (160 km da Ouagadougou) è stato impressionante. Insieme a don Sandro, accompagnati dall’Abbè Bertrand Sawadogo e da suor Lucie Sebgo dal villaggio di Bourzanga siamo arrivati nel pieno del caldo in quello che appare subito come un luogo fuori dal mondo: un pendio brullo ricoperto di polvere grigia e crivellato da decine di pozzi, alcuni coperti da capanne fatiscenti. Centinaia di persone si affannano intorno a questi buchi. La polvere nasconde le facce e i vestiti. Di tanto in tanto un’esplosione sotterranea crea un geyser di terra. Questo rumore è’ accompagnato dal costante martellamento dei macchinari e dai clacson delle moto che sfrecciano lungo i sentieri stretti, trasportando minerali e persone.
Ad Alga l’oro si estrae da piu’ di 30 anni: qui vivono circa 7.000 persone, un formicaio di disperati e sfruttati che ogni mattina scendono su verricelli alimentati a mano in pozzi che raggiungono più’ di 170 metri di profondità’. Lavorano su due turni di 12 ore ciascuno, prima per scavare un pozzo e raggiungere la falda aurifera, poi procedendo in orizzontale per seguire le vene d’oro. Per estrarre il metallo si usa la dinamite. Poi le rocce sono messe nei sacchi e portate in superficie. Uomini che sembrano usciti dall’oltretomba portano sulle spalle questi carichi pesanti in una lenta e silenziosa processione.
Vista la profondità devono usare i compressori per pompare aria fresca e i fumi del compressore invadono il cunicolo e laggiù diventa ancora più caldo. Caschi, guanti, stivali di sicurezza, maschere e altri dispositivi di protezione sono sconosciuti ad Alga. Ci sono anche bambini che strisciano nella polvere tra il frastuono dei generatori e degli altri macchinari. Alcuni di loro hanno meno di 10 anni e lavorano frantumando le pietre in ciottoli o separano l’oro usando il mercurio o il cianuro, altamente tossici. Molti bambini vengono costretti ad usare anfetamine per andare avanti, per ridurre l’ansia e diminuire la fame. I minatori, per lo più ragazzi e giovani che si calano nei cunicoli sotterranei legati ai piedi con pesanti corde fanno ricorso a droghe e alcool per poter resistere alla fatica.   La maggior parte di questi “minatori” lavorano per un salario da miseria in pozzi pericolosamente fragili, esposti a crolli e soprattutto a contatto con sostanze chimiche tossiche. Dormono all’aperto, sulla nuda terra e senza coperte. I più fortunati si stendono in capanne di paglia. Le condizioni igieniche inesistenti. Camminando per i cunicoli e i monti di polvere, si incontrano volti distrutti dalla fatica, dalla fame e dalla sete, occhi spenti.  Suor Lucie racconta delle brutali condizioni di vita dei minatori: lo sfruttamento che assomiglia ad una schiavitù imposta dai capi, le malattie (agli occhi, ai polmoni, la sordità), gli effetti devastanti delle sostanze stupefacenti che vengono assunte per resistere alla fatica e poi liti e percosse, delinquenza, furti, sopraffazioni, violenze di ogni genere (comprese quelle sessuali). Una bolgia infernale.
Il sole a picco martella la nostra testa, ho la gola secca dalla polvere che si respira camminando fra i vari cunicoli e pozzi, ma soprattutto tanta rabbia, tanta sofferenza per questi disperati e l’impotenza di non poter fare nulla se non raccontare con le immagini della mia macchina fotografica la loro condizione                                                                  .                                                                                        (Marco Lusini)